Le tragedie prevedibili: il processo del Vajont all’Aquila. Rigopiano

vajont

E’ il 25 novembre del 1968. Le immagini  mostrano le foto dei familiari strette nel petto, i fazzoletti neri a coprire il capo,  le  mani ossute e rugose, i visi patiniani come quelli delle nostre contrade se non fosse che venivano, invece,  dal Friuli Venezia Giulia e dal Veneto. Scendevano dai pullman per andare al Tribunale dell’Aquila,  presidiato dalle forze dell’ordine, per testimoniare nel processo che vedrà  550 parti lese per il disastro del Vajont, spostato da Belluno nel capoluogo abruzzese  per “legittima suspicione”, mancanza di serenità ed imparzialità  nel luogo dove avrebbe dovuto tenersi, la valle del Piave, la loro terra. Sono passati 5 anni dal 9 ottobre del 1963. Nei loro ricordi una montagna che  da tempo  scricchiola,  si muove,  tiene in ansia, allarma i paesi di Longarone, Erto, Casso, Castellavezzo, Codissago. Tre anni prima, nel 1960, c’era già stata una prima importante  frana e poi,  nel 1961-62, gli  studi geologici e tecnici avevano segnalato movimenti pericolosi. Le autorità, però, non avevano bloccato l’attività dell’ENEL,  a cui era passata nel 1962 la gestione della diga dalla Società privata SADE dopo la nazionalizzazione dell’energia elettrica. E così, fra avvertimenti inquietanti della montagna ed il silenzio delle autorità, alle 22.39 del 9 ottobre il Monte Toc si stacca, scende a 100 km orari, salta la diga e, in meno di 4 minuti, con un’onda stimata di oltre 200 metri, si abbatte con 266 milioni di metri cubi su 10 paesi della valle “l’equivalente di due bombe atomiche della potenza di quella di Hiroshima. Una strage. Dove c’era un valle, ora c’è una montagna che le si è ficcata dentro“.

Nelle aule affollate del Tribunale dell’Aquila,  da una parte i reporter, i fotografi, le schiere di avvocati concitati e dall’altra, oltre la linea del dolore, il silenzio dei familiari, venivano snodati 116 quintali d’incartamento nelle 144 sedute mentre le parti lese chiedevano, prima che il giudizio su quelle terre trasformate da boschi a melma fosse emesso, di non “rilasciare patenti ad uccidere”. Poi l’attesa, lunga lenta, delle cinque ore di camera di consiglio, la tensione, la speranza, le foto che si stringevano in una richiesta dignitosa di giustizia, la lettura della sentenza di I grado, il grido che esplodeva rabbioso di “assassini, assassini”, come l’onda anomala dell’idrocausto, a sommergere quella sentenza amara come l’acqua avvelenata,  le pene  lievi, in quello che da allora in poi venne chiamato “ Processo farsa”, lo Stato sia giudice che imputato, l’osceno scenario delle deresponsabilizzazioni ed interessi. Solo nel 1970 si riconobbe la prevedibilità dell’evento nonostante i vizi del bacino fossero già stati palesati prima del 1963 in tutta la gravità dai periti per un disastro “non solo prevedibile ma previsto”. Ma  i paesi erano  ormai scomparsi, i segnali non ascoltati  e i 2000 morti  pianti già da 7 anni. Nel 1971 la sentenza definitiva e nel 2000 l’accordo per il risarcimento a vittime e danni fra Stato, Enel e Montedison. Il fascicolo processuale del Vajont, consultabile on line, così riporta il sito dell’Archivio di Stato dell’Aquila,   è entrato  nel registro internazionale UNESCO Memory of the World per una conservazione che sia Memoria e, ci si augura,  consapevolezza sul dovere di previsione e prevenzione degli enti preposti,  valutazione dei rischi e  pianificazione dell’emergenze. E mentre  la grammatica del dolore oltrepassa il tempo,  sostituisce alla valanga d’acqua la neve, alle foto strette al petto dai familiari veneti le magliette con i volti delle vittime di Rigopiano,  il linguaggio giuridico che risuona  in questi giorni a  Perugia nel processo bis ribadisce, per  avvenimenti non così imprevedibili, l’attuazione di misure preventive dovute per evitare tragedie,  evitabili quando non ci sono nè negligenze ed  omissioni