Dai Quattro Cantoni verso il Futuro
di Raffaella De Nicola
E’ una fottuta nostalgia quella che prende, a me che sono adulta e che ho questa malcelata memoria, questa malinconia che non mi perde mai di vista, ma non a loro, i giovani, che li inondano e li travolgono questi quattro cantoni, il giovedì universitario ed il sabato sera, come un magma incandescente e vitale che si espande in uno scenario che da lì a poco tornerà a parlare silenzio.
I vissuti sono passati da qui e sicuramente marcherà anche il futuro questo crocevia magnetico dove arrivano i nostri ricordi per allungarsi nei corsi che penetrano nel dedalo della città come spade di tragitti viventi: i quattro cantoni
E’ alla fine dell’800 che la trasformazione ha inizio. La Cassa di Risparmio dell’Aquila, la prima nel Mezzogiorno, viene progettata da Giulio De Angelis, già autore della Rinascente a Roma, chiamata così da Gabriele D’Annunzio. Poi i portici, che cingono il Convitto sino alla Biblioteca Provinciale, inesistenti nella tradizione costruttiva nell’Italia centrale e meridionale, e che ci avvicinano invece all’urbanistica dei paesi nordici dove “il clima ne determina la costruzione per creare un percorso sul quale non vi sia né neve né ghiaccio e dove sia possibile camminare senza bagnarsi”. Infine gli altri istituti bancari: il Banco di Napoli 1934, la Banca d’Italia del 1943, la Banca Nazionale del Lavoro 1955, la Banca di Roma, un’armatura nelle cui maglie si muovono i ritmi sociali ed economici che sfociavano nella piazza centrale, grande stomaco di questo organismo vivente “intorno al quale dovette attestarsi il primo nucleo della città” con il mercato medievale, documentato già nel 1304, e le esecuzioni pubbliche che lì avvenivano sul patibolo.
Un assetto, quello federiciano, che vedeva l’asse principale in via Romana che da porta Barete (giusto per essere attuali) arrivava al corso principe Umberto, toccava i quattro cantoni, via Fortebraccio fino a Porta Bazzano ingresso alla città per chi veniva da Popoli, cioè da Sulmona e Napoli, almeno sino all’apertura dell’ultima Porta Napoli nel 1820 che decretò, insieme alla costruzione di via XX settembre, la decadenza di questo attraversamento, ma non certo dei 4 cantoni che da sempre ribadiscono la propria centralità con i quattro angoli: palazzo Ciolina e palazzo Fibbioni sentinelle del corso stretto che va verso la Fontana Luminosa, e il palazzo dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni e del Convitto dalla parte opposta.
E’ il bianco e nero a renderci l’atmosfera dell’epoca. Raffinate alcune, altre più popolane, le figure si stagliano fra la passeggiata che riempie da sempre i portici, la bambina accanto alla mamma, l’elegante signora in bianco che attraversa, il signore in divisa con le mani conserte dietro, la macchina che separa i passanti guardata da tutti, nella ritualità della borghesia aquilana di allora. Siamo ai primi anni trenta, il centro è animato dal caffè Roma, la sala teatro Eden, in stile art déco, la sala Baiocco inaugurata dalla Regina Margherita di Savoia nel 1898, tutte a caratterizzare quell’animosità che passa necessariamente per i quattro cantoni come un fiume che confluisce per fisica al mare. Sono sempre le foto a restituirci le immagini dei filobus e delle carrozze che scavalcando lo struscio movimentavano i primi trasporti.
“Non c’era bisogno di darsi appuntamento. Ci vedevamo sempre lì. Poi con la guerra sempre da lì controllavamo le camionette dei tedeschi che scorrazzavano con arroganza, impaurendo le ragazze e spingendole contro i muri, uccidendone anche una vicino il grande albergo” è il nonno di Arianna a parlare e racconta di suo fratello, un bambino di 10 anni, Arturo De Nicola, morto investito dalla macchina dei carabinieri proprio sotto i portici, all’altezza dell’omega di Cardilli, ma qui siamo nel 1941, la Resistenza è alle porte e i giovani che lì si incontravano, incrociavano anche quei ragazzi che sarebbero stati in nove ad essere martirizzati. Poi gli anni 70, la questione del capoluogo, le barricate che si incendiavano ai quattro cantoni, e questa volta sono i cumuli di neve sporca vicino il bar Corsi a raccontare, nelle foto, il primo dei grandi scippi politici che hanno impoverito e declassato la città.
Per la mia generazione i quattro cantoni erano gli appuntamenti per sgamare quant’è fico , spalle larghe, bacino stretto gambe arcuate, che ci piacevano da morì, che si appoggiava, fra le gomitate generali alla sua colonna, luogo distintivo del gruppo di appartenenza, mentre noi ooooooooohhhhhhhhhhhh eravamo invisibili, ma non Paola la bonazza dell’Aquila che non je pigliava mai l’influenza, l’unica fortuna in cui confidavamo per avere campo libero, noi che eravamo nel gruppo delle cozze. E gli autobus che non riuscivano a passare e allora strombazzavano ed il cuore saltava fuori ma avevi finalmente la scusa per aggrapparti a quelle belle spalle larghe. E le feste a scuola passate alla Gelateria Veneta poi Tambo, la Sala Eden, l’odore del gelo usciti dai locali, gli scivoloni sul pavimento bagnato dei portici, le grasse risate perché ricadevi e ricadevi, la biblioteca dove stavamo al caldo nascondendo la battaglia navale fra i testi che fingevamo di leggere, sotto lo sguardo severo dei dipendenti.
Ora i confini sono indistinti, labili. La forza centripeta dei quattro cantoni si è sgretolata, almeno di giorno, almeno per noi che abbiamo la memoria storica in questo algida estradizione. Eppure una forza vi confluisce lo stesso, sono i giovani ad orientarla, e li adoriamo molto, meno quando bevendo sfigurano il già deprecabile abbandono, ammirando la loro ostinazione che rende il giovedì universitario aquilano noto, frequentato, unico nello scenario regionale. Sono centinaia, migliaia, flussi corposi che si muovono, si toccano, si guardano, codici diversi che interagiscono e che rompono, fratturano un destino che lo ha voluto silenziare questo centro storico, in un linguaggio alternativo in cui sei taggato fra i pochi e coraggiosi locali aperti che hanno spostato dai portici a Piazzetta Regina Margherita il grumo della vita notturna.
Più complessa la vita dei ragazzini più piccoli. Il sabato sera passano distratti davanti ai quattro cantoni, si imbucano sotto i portici di San Bernardino e arrivano alle nicchie in una cattività forzata che blinda un’adolescenza in fazzoletti di luoghi ed esperienze privi di vicoletti, cortili, piazzette, luci di natale, atmosfere e suggestioni. Un’anaffettività urbana
Mi fa sorridere, ma mi mette anche tristezza, la loro energia esplosiva che si muove inconsapevole in residui di un reticolo cittadino che ha regalato a questo territorio storia e bellezza.
Ma solo fino ad un certo punto.
Ora le risposte devono necessariamente passare di qui, dal centro del centro, da quei quattro cantoni dove la nostra storia futura affonda, da questi quattro cantoni che scandiscono il tempo di pietra della nostra storia, dove la sequenza dei minuti si è oscurata, il silenzio si è fatto parola, il brusio dei giovani è speranza e dove, questa nostra memoria, ha il sapore amaro di una fottuta nostalgia.
L’immagine è tratta da “Aquila in cartolina. Viaggio nella storia della città dal 1895 al 1945” di M.P.Renzetti, L.Marra, F.Capaldi . L’Aquila, edizioni One Group, 2007
Le citazioni, quando non orali, sono riprese da Giorgio Stockel: “L’Aquila. La città esistente.” L’Aquila, ed. Futura, 1989