JE SUIS BELLA CIAO

 

Canto universale  di libertà senza colori e confini. Canto di resistenza,  libertà interiore, impossibile ingabbiarlo in un partito

di Raffaella De Nicola
E’ stata cantata a Parigi, dove è nata la liberté, a chiusura della campagna di Hollande, a New York nella manifestazione di Wall Street del 2011, a Hong Kong sotto gli ombrelli dei ragazzi che hanno sfidato il regime di Pechino, in Turchia a piazza Turksim contro Erdogan, in Grecia con Tsipras come resistenza alle politiche di austerity dell’Europa, a Kobane in Siria dalle voci delle donne curde, in Francia ai funerali dei vignettisti di Charlie Hebdo, il nostro Je suis universale che incrocia canto e ribellione. Esistono più di quaranta versioni, tradotte in un arcobaleno di lingue ma con il ritornello fisso, in italiano, quel saluto cordiale e popolare, il bella che apre alla speranza ed il corpo, il movimento delle mani, che accompagnano il ritmo.

Sono le note, sfuggite da un pentagramma italiano, quelle di Bella Ciao, dibattito ancora aperto sulla origine che indaga i testi yiddish del 1919, forse l’autore un ebreo di Odessa che cantava il dolore della diaspora,  i canti russi o addirittura la leggenda metropolitana che vorrebbe Enzo Biagi autore delle parole. Un canto collettivo, senza autore, che comincia a diffondersi a Bologna.  A noi piace pensarla nata, come sicuramente è almeno in una versione, dal duro lavoro delle mondine, paesaggi nebbiosi, piedi nudi nelle paludi infestate da insetti, la schiena curva su un riso amaro con il canto malinconico che accompagnava la ritualità dei gesti. Siamo negli anni della seconda guerra mondiale e Bella Ciao viene ripresa dalla Resistenza nell’appennino tosco emiliano in un contesto storico che vede gruppi di partigiani e forze politiche costituenti combattere contro il fascismo e il nazismo.

Ma è dopo la fine della guerra, a Praga nel 1947, al Festival della gioventù democratica, che partigiani emiliani la portano. E suonandola sfonda e si impone, da allora, come canto laico di libertà, ritmo incalzante e semplice di un folklore che ha, come unico confine, transiti, prestiti e contaminazioni “di chi unifica la speranza e l‘attesa della democrazia“, slegata da fazioni politiche, tanto da chiudere persino le assisi di lavoro della DC qui in Italia.

E’ invece, ovunque, un inno di forze popolari che, anche se tradotto, ha mantenuto la freschezza del ritornello italiano e onora un paese, il nostro, che non smentisce l’incapacità di valorizzare patrimoni materiali e immateriali.

Il perché piaccia, questo canto, sottofondo musicale del ’68 in Italia, ed entrato nel repertorio della grande tradizione musicale con Gaber, Yves Montand  (la Francia più di tutti ha contribuito alla diffusione della canzone secondo Carlo Pestelli nel suo libro “Bella Ciao, la canzone della libertà” del 2016), Milva, Claudio Villa va cercato soprattutto nella visceralità bella e leggera di un linguaggio popolare, che travalica le topografie, simbolo internazionale di indipendenza dei popoli.

Preferita dalla Resistenza al più cupo ed impegnato “Fischia il vento”, si è mossa fluida in un contagio emozionale che ha come patria non un territorio specifico ma l’uomo ed il suo essere. Peccato che proprio in Italia sia imbavagliata da uno scenario politico che l’ha persino censurata nell’edizioni passate di Sanremo per i 150 anni della Repubblica in una Rai che esigeva, per par condicio, Faccetta Nera.

Qui, intorno a noi, in Abruzzo,  le montagne ancora portano l’eco di una speranza lontana, di un battito di mani che da 70 anni racconta con il canto, una tomba, un invasore, un partigiano, seppellito sotto l’ombra di un fiore che ora guardo ringraziando, lassù, la Maiella, Madre dell’unica brigata medaglia d’oro al Valore militare che liberò Bologna insieme agli alleati, accompagnati da un battito di mani e da quel linguaggio universale,  suono della terra, di resistenza contro ogni oppressione, in attesa della democrazia, oltre la categoria dei partiti.

 

 

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