LA QUINTA STAGIONE

di Raffaella De Nicola

Chissà quanti segreti potranno raccontare un giorno, di noi, queste mura che sigillano la nostra vita.

Alle mie figlie, alle loro figlie, potranno un giorno raccontare, forse, di come noi, tiranneggiati dal tempo sospeso,  pensavamo di poter far tutto  nelle lunghe giornate  senza ore e, invece, era il nulla, il pensiero interiore dilatato dalle preoccupazioni,  il torpore che manipolava l’energia, i soldi che  mancavano.

La vita, fuori,  silenziosa, domina,  lo spazio senza uomo, gli animali stupiti, ma felici,  avanzano increduli nel regno che  usurpiamo ai loro territori, depredandolo. E’ una nuova Walt Disney. Cervi, scimmie, delfini, anatre, uccelli, pinguini  passeggiano nelle città vuote e guardano incuriositi dentro le gabbie dove, per una volta tanto,  siamo noi.

E il mondo  respira.

Rilassate le acque, trasparenti i fiumi verso il mare senza l’angoscia di ospitare  melma industriale,  cieli trasparenti,  l’Himalaya, dopo trenta anni,   domina il paesaggio  a 200 chilometri di distanza.

La primavera, fuori, mai vista con tale anticipo, si pavoneggia e provoca, sfiorando le finestre dei balconi sempre aperte,  anche quando, nelle strade vuote, da quelle finestre,  l’urlo distopico di convivenze tossiche spezza aggressivamente  il silenzio.

Su questo piano inclinato, scivoloso, perdersi è tutt’altro che difficile, ognuno ha la sua, di peste,  dietro ogni porta c’é un’ epidemia personale, non tutti ce la fanno. Qualcuno muore, altri rimangono fermi, altri ancora provano a ricominciare.

Ancora ricominciare, dico alle mie figlie, ridico a loro, fra le pareti che non parlano ma ascoltano, dopo aver già conosciuto le zone rosse del 2009, l’anno del sisma devastante.

“Ancora mamma? Di nuovo ricominciare da sottozero  in questo tempo irripetibile e terrificante?” urla dall’interno del frigo, kamasutra alimentare.

Offrile qualcosa, fattela amica, quest’ospite indesiderato, questa solitudine invasiva e arrogante.

Mi appiccico alle parole dette in video chiamata, a te, figlia,  che sei lontana. Intravedo, lì, nell’angolo,   la divisa, nuova, del lavoro che è saltato, che tanto volevi,  le tante selezioni  superate. Ci sarà di nuovo modo di indossarla?

Il kilowatt della tua voce è  soffocato, una lampadina imbizzarrita  si accende e spegne, rischierà di fulminarsi questa energia schiacciata, che non sai dove mettere? L’ insofferenza , in questa clausura,  a te che sei energia pura?

Fuori, la vita,  ti attrae. Sei giovane, sola, ti affacci alla finestra in stand – by, preoccupata. Odori l’aria, sei all’esterno delle storie, spettatrice, giorni che scorrono per immagini, senza entrare, in quelle immagini.

Esci fuori dal frigorifero, figlia, l’unica certezza è che quella divisa, se mai dovesse servirti, ti andrà stretta, striglio.

Io qui, lontana, affondo sul divano, sul quale un tempo, seduta, non riuscivo a toccare il pavimento,  accanto a mio padre, le sue mani, immense,  le usavo per salire i sogni, le promesse che pensavo, il suo ti proteggerò. Ora la sua pelle è raggrinzita, un  foglio di pergamena accartocciata come pagine di un libro che leggo, avida, in attesa di un finale che non vorrei mai e, comunque,  non in questo modo.

Anche tu, padre, sei preoccupato, fra queste mura dove ti terrei sigillato, al sicuro, ma tu devi uscire, giorni alternati alla dialisi, sei anziano, padre, sei la generazione saltata, quella che non conta, non vale, non ci importa niente, dopo tutti gli sforzi di una vita, andare così, via, solo. Il cielo ha un buco strappato. Sei legna secca, un albero abbattuto, sei la crudeltà della vecchiaia, la profanazione di un corpo.

L’altra, di figlia, che mi è vicina, canta il suo tempo, il ritmo universitario spezzato, la sua realtà mediata dall’occhio non umano di una chat,  opache le immagini delle amiche e gli odori della montagna che le arrivano, come sciabole,  nei ricordi delle ginestre selvatiche  che la immalinconiscono.

E’ il tempo della V stagione, figlie, quella della catena sociale distanziata, degli abbracci mancati, del contatto sospeso. Ci mancava pure questo, indifferenti già come siamo, a non congiungere le nostre mani, a non toccarci, allontanarci.

E’ il tempo della V stagione, padre, quella della paura, la tua , la mia, la nostra. Dopo   questo tutto tornerà come prima, purtroppo, occasioni mancate per migliorare,  l’uomo deraglia la sua memoria

E’ il tempo della V stagione per me, preoccupata fra incertezza e povertà, pandemie sociali ed economiche,  un futuro che non è quello pensato.

Fra queste pareti dove sono stata bambina, mi alzo dal divano ma non ci riesco. Ricado indietro, qualcosa mi tira e strattona. Mi giro e rigiro, non trovo il capo. Poi lo vedo, anzi, lo sento. Qualcuno, dall’altra parte del mondo, si è alzato mentre  mi sedevo, il suo filo ha tirato il mio, questo parallelo, invisibile, che unisce, passa da una parte all’altra del pianeta, cuce e lega, in una finta diversità, le altre umanità, altre quarantene, anche se lì le luci si  accendono quando noi le spegniamo, anche se lì si regalano giorni mentre qui si fa notte.

Forse, un giorno, queste mura,  potranno raccontare questa V stagione, surreale, vuota, silenziosa, come la storia si sia fermata, l’uomo si sia perso o ritrovato fra le tante domande sospese e di come io abbia detto, di fronte al tuo sentirti inutile, Padre, tu sei oceano, sei  il Novecento e l’Ottocento, e ancora più giù, dove noi eravamo , sei la chiave di violino che ci ha permesso di esistere.

E chissà se queste mura, umide prigioni,  hanno poi sentito il mio accorato silenzio quando, frastornata e commossa,  non sono riuscita a rispondere all’ultima, straziante, domanda, a te, padre, che  mi chiedesti,  con un raschio di voce, “dove sarò domani?”

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